EUROPA CIVILE 162 1. Il Sonderweg europeo Contrariamente a quanto alcuni hanno sostenuto, la globalizzazione economica e fi- nanziaria – principale motore della contrazione spazio-temporale del mondo – non in- terviene entro una dimensione politica statica e immune dal mutamento 1. A far le spese dei suddetti cambiamenti è in primo luogo lo spazio omogeneo dello Stato territoriale, le cui funzioni vengono profondamente ridisegnate, sia verso l’alto sia verso il basso. Nel contesto globale, lo spazio geopolitico che meglio dà conto di tali mutamenti, i cui esiti istituzionali non sono peraltro affatto scontati, è quello relativo all’integrazione europea, che si presenta allo scienziato sociale come un vero e proprio laboratorio di analisi assai interessanti per l’esame delle modificazioni proprie della dimensione in- ternazionale della politica. Entro il vastissimo panorama degli studi europei, le riflessioni maggiormente pro- duttive mi paiono essere quelle che, alla ricerca della definizione di una via specifica- mente europea all’integrazione, prendono le distanze da quei modelli che ci offrono chiavi di lettura interpretative della realtà internazionale non pienamente adeguate 2. Innanzitutto la tradizione del realismo politico, che ponendo al centro dell’indagine la struttura dello Stato come attore autonomo permanentemente incline alla messa in esercizio del meccanismo della defezione, finisce con il militare a favore di una perma- nenza delle tradizionali regole della politica internazionale, confermando così quell’in- clinazione alla visione di una realtà internazionale che, nella sua essenza, si mantiene anarchica 3. Analoga presa di distanza interviene rispetto all’ipotesi, normativamente assai più impegnativa, di un’integrazione europea che, nella prospettiva della cosmopo- lis, verrebbe a rappresentare un primo tassello di una progressiva inclusione destinata a procedere su scala globale. Nello spazio teorico intermedio che si viene a creare tra queste due ipotesi, la stessa riflessione filosofico-politica, facendo proprio un tema a lungo trascurato, trova un oggetto d’indagine particolarmente attraente, che pone al centro non più l’idea di Europa o la storia dell’Europa, ma l’Unione europea in quanto Anna Loretoni La via europea all’integrazione fra gli Stati istituzione politica, per comprendere la quale la cassetta degli attrezzi concettuali di cui dispone deve essere in parte ridefinita 4. Alle alternative che la tradizione teorica ci mette a disposizione, ma che non ap- paiono pienamente convincenti, va allora aggiunta una ulteriore ipotesi interpretativa, dai contorni teorici ancora piuttosto indefiniti, ma interessante proprio perché poten- zialmente in grado di sfuggire al bipolarismo interpretativo della riproposizione della funzione dello Stato sovrano da una parte o della configurazione dello scenario politi- co in direzione cosmopolitica dall’altra 5. Mi riferisco a quell’ipotesi neo-regionale che, sulla base di analisi comparative compiute su fenomeni di integrazione operanti in vari punti del globo, propone un terzo livello di analisi, intermedio tra quello nazionale e quello globale, che presenta indubbi vantaggi sul piano teorico 6. Innanzitutto, il neo-re- gionalismo si differenzia dalla stasi interpretativa del realismo politico perché assume sul serio il fenomeno dell’integrazione, ne analizza le diverse componenti – in primo luogo economica, politica e culturale – e assume come interna a tale processo la forma- zione di poteri sovranazionali e non solo internazionali. Il concetto di Stato che sulla base di questa proposta viene ridefinito, appare connotato nel senso di un’apertura verso l’alto (open-State) che non porta alla sua estinzione, ma alla sua riconfigurazione all’interno di processi decisionali che mantengono sia caratteri sovranazionali che in- tergovernativi. Inoltre, strutturalmente lontana dalle derive rischiose del cosmopoliti- smo ipernormativo, l’ipotesi neo-regionale auspica, nell’attuale fase post-bipolare, il prodursi di una pluralità di soggetti politici in grado di gestire a livello macro-regiona- le crisi, conflitti, sfide ambientali, e di tentare di governare politicamente la nuova eco- nomia deterritorializzata. In questa ipotesi interpretativa, un ruolo fondamentale è as- segnato alle istituzioni, avvicinando così tale prospettiva a quella del liberal institutiona- lism, che assai opportunamente sottolinea lo studio delle istituzioni in ragione della lo- ro capacità di condizionare e indirizzare proprio le preferenze dello Stato, non più quindi configurabile come unica e autonoma fonte razionale delle scelte in ambito in- ternazionale 7. Quanto vorrei sottolineare è che l’interpretazione offerta dal neo-regio- nalismo agli studi europei è filosoficamente assai ricca, e soprattutto più adeguata a co- gliere la natura specifica dell’integrazione europea, contribuendo a sciogliere alcuni dei molti nodi che si intrecciano nella considerazione dell’Unione come polity sui generis 8. Nella considerevole distanza che intercorre tra un’integrazione europea interpretata come the rescue of the nation-state da una parte 9, o come primo passo verso una cosmopo- lis dall’altra, non sta però solo la sfida interpretativa posta dal carattere inedito dell’in- tegrazione europea, ma quella – assai più radicale – relativa ai nuovi possibili assetti della politica e del potere entro il quadro generale dei processi di globalizzazione. E al- lora: cosa può significare, in termini filosofico-politici, un’Europa che nel tentativo di sottrarre la politica alla deriva della dispersione globale prova a rispazializzarla pro- prio attraverso l’integrazione tra Stati che si ricollocano entro una più ampia «comu- nità di sicurezza»? Cosa può voler dire conciliare la sopravvivenza degli Stati e la loro integrazione in un insieme più vasto, che alternando la scomparsa delle frontiere stato- nazionali e la loro riaffermazione in altri contesti, escluda la guerra dalle relazioni tra gli attori del processo stesso? Innanzitutto, le dinamiche complesse di un’integrazione che non si confonde con l’unificazione comportano la consapevolezza, critica verso la tradizione funzionalista, che la cessione di sovranità verso l’alto non significa necessariamente la creazione di un potere centrale che ne assorbe le funzioni. Gli Stati permangono e restano, seppure in presenza di forti mutamenti, gli attori del nuovo concerto europeo, contribuendo co- 163 sì a definire come illusoria tanto la creazione di un territorio dell’Unione che si sostitui- sce a quello degli Stati, quanto il tentativo di chi vorrebbe continuare a pensare la so- vranità statale in termini classici. L’integrazione europea tra gli Stati comporta una ri- definizione degli stessi termini dell’obbligo politico da parte dei cittadini e delle citta- dine; trasformando le direttive comunitarie in politiche pubbliche degli Stati nazionali, si produce un’innovazione decisiva rispetto ai modelli di teoria politica disponibili, che muta radicalmente anche la natura esclusiva dell’appartenenza. Come leggere questo ibrido? Con quali strumenti della tradizione teorica? Va in- nanzitutto sottolineato il fatto che questo soggetto politico non statuale si avvale anco- ra di una nozione di spazio. Si tratta di uno spazio non più fra gli Stati ma oltre questi, come richiama lo stesso Trattato di Amsterdam. Questa spazialità, però, non è il sem- plice ampliamento su scala sovranazionale delle dimensioni più ristrette dello Stato; nella dimensione sovranazionale dell’UE si assiste piuttosto a una moltiplicazione delle spazialità relative ai vari ambiti specifici. Esiste oggi uno spazio dell’Euro, uno spazio del mercato, uno spazio della difesa comune, non più sovrapponibili come lo sarebbero entro lo Stato nazionale, e la cui relazione reciproca può ben essere concettualizzata tramite la nozione di «confine funzionale» 10. Il processo d’integrazione europeo ha in- fatti dato luogo a una scomposizione settoriale e inedita della sovranità degli Stati: in alcuni ambiti essi hanno ceduto all’Unione porzioni di sovranità, in altri, al contrario, essi l’hanno mantenuta. Il processo lungo e contraddittorio che ha caratterizzato la for- mazione dello Stato moderno sembra riproporsi nella stessa articolata modalità anche nella fase della sua ridefinizione entro i contesti di integrazione, mettendo in atto un percorso di cessione di funzioni e competenze verso l’alto che non è affatto lineare e che disegna non la fine dei territori e dei confini, ma l’estinzione della configurazione omogenea e piatta della moderna spazialità del politico. L’interpretazione dell’UE come polity sui generis è rafforzata dagli sviluppi di molti ambiti disciplinari, inclusi quegli studi costituzionali che, dopo essere usciti dalla stret- toia concettuale della discussione sull’esistenza o meno di un demos europeo quale sog- getto in grado di dare legittimità al percorso costituzionale, hanno confermato la natu- ra tutta particolare della via europea, tramite la messa a fuoco del fatto che l’alternativa non si gioca più tra un assetto precostituzionale e uno costituzionale in senso proprio, ma tra una dimensione sui generis e un’altra dimensione sui generis. Alcuni autori han- no riscontrato proprio in questa natura immanentemente ambivalente la caratteristica più autentica dell’Unione, il suo non essere conformabile a un modello specifico. La stessa vicenda della bocciatura referendaria del Trattato/Costituzione in Francia e in Olanda, che ha interrotto il lungo trend positivo la cui origine si potrebbe far risalire al- l’Atto unico europeo del 1986, va letta alla luce delle dinamiche proprie di una polity che non ha mai neutralizzato le singole sovranità statali, ma che ha invece incluso la dialettica centro-periferia nei suoi tratti costitutivi. La dinamica conflittuale, più o me- no accesa, tra le unità che compongono l’Unione, gli Stati e il governo centrale, è ele- mento integrante della storia dell’integrazione, la cui dimensione istituzionale ha fatto prevalere, nelle diverse fasi storiche, l’una o l’altra parte 11. In seguito alla potente battu- ta d’arresto del 2005, quindi, è l’idea degli «Stati Uniti d’Europa», altrimenti detta di una compiuta forma istituzionale e costituzionale insieme, a uscire sconfitta. Al suo po- sto emerge sempre più diffusa la consapevolezza che l’assetto dell’Unione non è l’esito provvisorio di una fase temporanea, destinata a essere prima o poi superata in vista di un qualche migliore adeguamento istituzionale. Al contrario, l’Unione, proprio nella sua particolarità, sembra in grado di esibire una propria «instabile stabilità». 164 Anna Loretoni Appare oggi quanto mai chiaro che la dimensione politica dello Stato, sebbene ride- finito in alcune delle sue funzioni sovrane, rimane parte rilevante del processo di inte- grazione europeo, che non si è mai trasformato in processo di unificazione e quindi di superamento delle singole sovranità. Tuttavia, non va dimenticato che tale integrazione avviene tra Stati ex nemici e che in quanto tale essa è rivisitazione critica di quel lato oscuro della storia europea che ha a che fare con la dimensione della guerra e con la natura anarchica della realtà internazionale. Nella stessa «dichiarazione Schuman» del 9 maggio 1950 si esprimeva l’ipotesi del contributo che dall’Europa poteva essere offer- to al mondo affinché l’instaurazione di relazioni pacifiche tra gli Stati potesse divenire una realtà universale, proprio a partire dal passato di guerra che aveva caratterizzato le relazioni tra gli Stati europei: «La solidarietà di produzione così instaurata renderà ma- nifesto che qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diviene non solo impensabile, ma materialmente impossibile». Che l’Europa dovrà impegnarsi nell’esprimere una vo- cazione alla pace è l’opinione espressa in termini espliciti da Konrad Adenauer proprio sul piano Schuman. Nello scontro, tipico della fase della Guerra Fredda, tra Stati Uniti e Unione Sovietica, l’Europa unita dovrà svolgere il ruolo della terza forza, inferiore – da un punto di vista militare – rispetto alle due grandi potenze ma forte in quanto unità economica e politica, in grado – qualora dalla tensione latente si passi al rischio del conflitto aperto – di far valere il proprio peso politico come potenza garante del mantenimento della pace. Soluzione dei conflitti e garanzia della pace entrano quindi nell’agenda politica del- l’Europa sin dalle sue origini, e contribuiscono a definire il suo specifico ruolo nel con- testo globale. Consapevole della sua particolarità, l’Europa può parlare al mondo un nuovo linguaggio, che è quello della critica alla sovranità assoluta ed esclusiva, ma che è allo stesso tempo coltivazione di quel pluriversum che sebbene abbia portato alle due guerre mondiali attraverso la deriva degenerativa dello scontro violento, opportuna- mente ridefinito può proporre al mondo, proprio tramite l’integrazione, una visione nuova dello spazio politico, prodotto di una capacità riflessivamente critica di quel ver- sante esterno della sovranità che ha contrassegnato la configurazione moderna del po- litico. Si tratta di un modello di esercizio del potere che sa apprendere dal passato, dal- la rielaborazione di una memoria che non può essere solo riproposizione enfatica delle grandezze della cultura europea. Questo disegno, in definitiva una strategia di civiliz- zazione della sovranità, pur possedendo tratti inediti, affonda le sue radici nella lunga storia dell’Europa, che proprio nel momento in cui si rende consapevole della propria specificità politica rispetto ad altri contesti prova a elaborare strategie di contenimento della violenza, in grado di esibire un’efficacia della politica anche su quel versante esterno, particolarmente insidioso proprio perché in esso sono più pares a confrontarsi. 2. L’ipotesi dell’equilibrio: contenere l’egemonia e limitare la violenza La lettura dell’integrazione europea che qui si propone mette al centro l’idea di una civilizzazione della sovranità dello Stato la cui origine può essere rintracciata in quelle riflessioni finalizzate a contenere la portata caotica e bellicosa di una sovranità con ca- rattere esclusivo verso l’esterno, quale fu, innanzitutto, la teoria dell’equilibrio tra gli Stati (balance of power), nelle molte varianti in cui essa si è presentata. Federico Chabod ha ricostruito come la nascita della coscienza europea si sviluppi contemporaneamente alla consapevolezza di un equilibrio esistente in una pluralità di Stati. Questa ipotesi, che si fa progressivamente strada in un’Europa che si pensa diversa dal resto del mon- 165 La via europea all’integrazione fra gli Stati do, assume via via consistenza ed è alla lunga rafforzata anche dalla crescita di una di- plomazia stabile e di un diritto pubblico internazionale. L’origine di tutto ciò viene rin- tracciata da Chabod nella riflessione di Niccolò Machiavelli, che per primo dà conto della specificità dell’Europa, del suo percepirsi distinta dall’Oriente in quanto comu- nità politica laica e non religiosa. Europa e Asia offrono due tipi diversi di organizza- zione politica, secondo Machiavelli, che coglie proprio nel formarsi della molteplicità degli Stati europei il superamento definitivo del precedente ordine garantito dall’Impe- ro da una parte e dal Papato dall’altra. «Così è che l’idea della necessaria molteplicità di Stati s’inserisce da allora, saldamente, nella pubblicistica; e vi s’inserisce anzitutto attraverso quella sua applicazione storica che è la cosiddetta dottrina dell’equilibrio eu- ropeo» 12. Si propone con ciò una lettura dell’Europa non più su base religiosa ma poli- tica, a partire dall’esistenza di una molteplicità di Stati che stanno tra loro in una condi- zione di equilibrio. Il principio dell’equilibrio diviene così una sorta di costituzione propria dell’Europa, un principio costitutivo di questo continente, sconosciuto in altre parti del mondo, in grado di distinguere l’Europa dall’Asia o dall’Africa, tanto nella gestione della cosa pubblica che nella concezione della giustizia e della relazione tra governo e sudditi 13. A questa altezza, però, quello dell’equilibrio è un modello che in definitiva fa anco- ra leva sull’esistenza di una tendenza per così dire naturale, una sorta di ordine sponta- neo, dovuto allo specifico carattere degli Stati europei. A questo modello sarà successi- vamente sostituita un’idea di equilibrio dagli spiccati tratti riflessivi e volontaristici, una sorta di debole artificio strategicamente adottato dagli attori politici per garantire la propria sicurezza. Di questa seconda interpretazione ne è un esempio la stessa riflessio- ne di Carl von Clausewitz che in seguito allo choc provocato in Europa dalle armate na- poleoniche, propone un’idea di equilibrio che prova a trarre insegnamento proprio dal- l’esperienza della sconfitta prussiana del 1806. È quasi ovvio sottolineare che la versio- ne clausewitziana dell’equilibrio sia strettamente legata a quella particolare interpreta- zione del rapporto tra guerra e politica che fa di Clausewitz l’autore della formule, guerra continuazione e strumento della politica con altri mezzi. La visione clausewit- ziana dell'equilibrio europeo è perciò quella di un equilibrio armato, in una condizione di pace armata e salvaguardata dalla paura reciproca degli Stati, che non può prescin- dere dall'esperienza del periodo napoleonico. L’esistenza di interessi generali tra gli Stati crea profondi «nodi consolidatori» (befestigen Knoten), così che essi: «scorgeranno sempre nel mantenimento dello status quo la migliore sicurezza per i loro interessi co- muni» 14. Si tratta di una tendenza di fondo, a dimostrazione della quale sta la maggior parte della storia d’Europa, e senza la quale non vi sarebbe mai la possibilità che nume- rosi Stati convivessero tranquillamente l'uno a fianco dell’altro per un tempo piuttosto lungo. «Essi dovrebbero, per necessità, venire a urtarsi. E quindi se l’Europa attuale è, da un millennio, rimasta a un dipresso immutata, non possiamo ascrivere questo risul- tato che alla tendenza prodotta dalla comunanza di interessi» 15. All'interno di questa tendenza si dà comunque la possibilità di alcune eccezioni, anche queste comprovate dalla storia, che pur non annullando la tendenza di fondo la modificano nella sostanza, proprio nel riconoscimento di quelle situazioni eccezionali e dinamiche che rappresen- tano la parte più nuova della riflessione clausewitziana in proposito. Riconoscere la tendenza all’equilibrio, infatti, non è condizione sufficiente per la sicurezza dello Stato: è infatti tanto più possibile fare affidamento sulle assistenze esterne «quanto maggiore importanza abbia per tutti gli altri la propria esistenza, cioè quanto più sane e vigorose saranno le sue condizioni militari» 16. 166 Anna Loretoni In questo punto si esprime con chiarezza una concezione dell’equilibrio europeo che, da una parte, trova nello Stato rafforzato militarmente a difesa dei consolidati con- fini il suo fondamento ultimo e la sua concreta garanzia, dall’altra, assume i connotati propri del risultato di un’azione intenzionale e consapevole dei singoli attori, e non quelli di un esito dovuto a una meccanica interna al sistema degli Stati. Della specifica forma moderna di equilibrio armato fra gli Stati appare pienamente consapevole David Hume, che nello scritto dedicato a questo tema si sofferma proprio sulle differenze tra la nozione moderna di equilibrio di potenza e lo sfumato e per certi versi generico con- cetto di equilibrio noto in ogni tempo. Secondo Hume, infatti, appartiene alla ragione- volezza che uno Stato si adoperi per impedire la crescita, in termini di potenza, di un altro Stato; in primo luogo per ragioni legate alla propria sicurezza. È una sorta di re- gola prudenziale che appare necessaria agli Stati che vogliano mantenere la propria in- dipendenza e che in tal modo evitano di finire alla mercé di uno Stato che disponga di mezzi irresistibili 17. Tuttavia, se in alcune fasi storiche l’equilibrio poteva dirsi quasi una tendenza naturale delle relazioni internazionali, qualcosa che poteva prodursi da sé, meccanicamente, così non è nella modernità, dove invece esso va perseguito con as- sai maggiore determinazione e circospezione 18. La cesura brevemente ricostruita da Hume tra concezione premoderna e concezione moderna di equilibrio offre spunti inte- ressanti, che in parte vanno nella stessa direzione indicata dalla riflessione di Clau- sewitz. Il moderno sistema internazionale fa dell’equilibrio tra gli Stati una dimensione strutturalmente precaria e quindi potenzialmente dinamica, che abbisogna di tutela e circospezione da parte degli attori politici, i quali devono essere militarmente adeguati alla sfida della guerra, anche con l’insostituibile ausilio di una popolazione pronta a scendere in armi in caso di necessità, agendo altresì in modo tale da porre la balance of power al primo posto tra gli obiettivi da perseguire. Nella visione dell’equilibrio europeo successivamente proposta da Hedley Bull, la dimensione riflessiva e consapevole dell’equilibrio viene ulteriormente rafforzata, que- sta volta a scapito della rilevanza della componente militare/agonistica del confronto tra gli Stati europei. La tendenza degli Stati a muoversi in favore dell’equilibrio non è semplicemente una condizione generata dalle politiche consapevoli di Stati particolari che si oppongono all’emergere di un predominio all’interno del sistema, ma uno «sco- po consapevole del sistema in quanto tale» 19. Ciò implica, secondo Bull, una collabora- zione tra gli Stati nel promuovere l’obiettivo comune della preservazione dell’equili- brio, in modo che non solo il singolo Stato cercherà di agire per impedire la preponde- ranza altrui, ma accetterà anche la «responsabilità» di non sconvolgere a sua volta l’e- quilibrio. Contenimento degli altri, ma anche autolimitazione; sono gli elementi carat- terizzanti lo scopo comune degli Stati europei a partire dal XVIII secolo. Con questa interpretazione della balance of power siamo ormai decisamente lontani dall’ipotesi di un equilibrio fortuito, in grado di scaturire da sé, in assenza di uno sfor- zo cosciente per attuarlo, quasi una tendenza naturale tra gli Stati. Qui l’equilibrio è qualcosa di consapevolmente cercato e non il frutto immediato dell’interazione fra gli attori politici statuali. A differenza di quanto sostenuto da Clausewitz, il tratto princi- pale dell’interpretazione proposta da Bull, e che è in grado di rafforzarla significativa- mente, sta nel negare la condizione di bellicosità quale elemento connotante la dimen- sione internazionale e nel postulare invece al suo interno un certo grado di ordine e di interazione. Sul piano concettuale, è la nota locuzione della anarchical society che può restituire pienamente la specificità di tale proposta 20. Lungi dall’essere un ossimoro, questa espressione mette in luce che, sebbene nella dimensione internazionale non si 167 La via europea all’integrazione fra gli Stati dia un potere super partes in grado di dirimere le controversie, da ciò non si può trarre la conclusione che in essa non siano rintracciabili forme di societas, frutto in primo luo- go di interazioni, accordi, relazioni tra gli Stati. Tali legami trovano fondamento nella percezione che, pur nella separazione delle diverse sovranità, esistono tra questi attori molti interessi comuni. Bull, dunque, utilizza il termine anarchia nel senso proprio dell’assenza di government, e non come sinonimo di caos o di disordine. Sulla base di questa riflessione, gli Stati non sono vincolati solo dalle leggi della prudenza e dell’interesse, ma anche da imperativi giuridici e morali, che trovano concreta forma nelle regole e nelle istituzioni della società internazionale. Secondo Grozio, che a ragione possiamo considerare il pa- dre della tradizione di pensiero a cui lo stesso Bull appartiene, gli Stati ripropongono nello scenario internazionale quella condizione di precarietà che caratterizza gli indivi- dui e che li spinge ad associarsi tramite il patto. Anche gli Stati, sulla base di una mede- sima percezione utilitaristica, sono spinti a stabilire e poi a rispettare norme di tipo giu- ridico, proprio perché la loro condizione non è quella della sibi sufficientia, bensì quella della insopprimibile precarietà. La strutturale debolezza, l’essere permanentemente esposti all’insicurezza, non spinge gli Stati a misurarsi solo attraverso la guerra, ma mettendoli in una condizione di reciproca dipendenza, li motiva anche verso la coope- razione. Così come gli individui, «deboli e bisognosi di molte cose», ricercano forme di cooperazione, anche gli Stati, accomunati da una medesima condizione di precarietà, non agiscono con modalità unicamente esclusive e competitive. Nell’ipotesi ora analizzata, la consapevolezza dei profondi legami che uniscono gli Stati europei è tale da investire le stesse regole della guerra, che da strumento incon- trollabile diviene, opportunamente regolamentata, «guerra giusta». La definizione del- lo jus ad bellum e dello jus in bello mira, infatti, a reperire le regole che hanno valore an- che nel corso della guerra, quando tacciono le leggi positive, il diritto civile, ma non il diritto naturale quale diritto delle genti, quale diritto che ha vita tra i popoli 21. Secondo Grozio, la dimensione dell’illecito non si dà solo all’interno dello Stato, ma anche nei confronti del nemico; e il silenzio delle leggi, in guerra, è quello delle leggi civili, non di quelle eterne, scritte dalla natura o istituite dal consenso dei popoli. Il nemico non è più svalutato al rango di un criminale da abbattere, ma è l’avversario che sta sul mede- simo piano, così che nei suoi confronti la guerra deve assumere per quanto possibile le fattezze della razionalità: essa viene limitata, mitigata, controllata. Come è evidente, l’obiettivo di questa tradizione, anche attraverso la teoria della «guerra giusta», non sta nell’eliminare la guerra, ma nel limitarla, cercando di trasferire nella dimensione internazionale, in caso di conflitto estremo, la capacità regolativa del- la politica e del diritto. Inteso in questo senso, il modello della balance of power rappre- senta il tentativo di governare l’anarchia internazionale cercando di circoscrivere il si- gnificato del termine anarchico alla mera assenza di governo, e di escludere invece il secondo, traslato, significato del termine anarchia, quale dimensione connotante caos e disordine. Possiamo leggere questa riflessione, che negli autori presi in esame presenta indubbi tratti di eterogeneità, come una sorta di primo tentativo di civilizzazione degli Stati, di limitazione della possibilità di accesso alla violenza da parte degli attori politi- ci, al fine di regolamentare la portata distruttiva insita nella definizione del potere dello Stato come superiorem non recognoscens. È, in definitiva, il tema della Hegung des Krieges ricostruito da Carl Schmitt nella prima parte del Der Nomos der Erde 23. Espunta dall’am- bito della vita sociale interna allo Stato, la guerra si disloca nella dimensione interna- zionale, esterna al singolo soggetto sovrano, dove però non ha luogo il conflitto indi- 168 Anna Loretoni scriminato, ma dove ha valore – seppure nella forma debole e imperfetta del diritto in- ternazionale – la legge di natura e lo jus gentium, deputato a mettere in forma la violen- za incontrollabile propria della guerra. 3. Il modello kantiano: la sovranità sfidata In questo percorso alla ricerca di riflessioni aventi per obiettivo quella che abbiamo definito come civilizzazione della sovranità, uno spazio specifico spetta alla riflessione kantiana. Nella lettura dell’ordine internazionale proposta da Kant, nulla potrebbe ap- parire così estraneo quanto il richiamo a una tendenza all’equilibrio tra gli Stati; anzi, direi che quella lettura prende avvio a partire dalla presa d’atto della insuperabile de- bolezza strutturale dell’ipotesi della balance of power. Riferendosi esplicitamente alla speranza di un equilibrio tra gli Stati, frutto di una loro presunta tendenza alla stabilità, Kant afferma: «Non vi è qui altro mezzo possibile fuorché un diritto internazionale fondato su pubbliche leggi sostenute dalla forza, alle quali ogni Stato dovrebbe sottoporsi (ad analogia del diritto civile o pubblico, cui i sin- goli individui si sottopongono), poiché una pace universale durevole ottenuta median- te il cosiddetto equilibrio (Balance) delle potenze europee è semplicemente una chimera, co- me quella casa di Swift, che era costruita secondo tutte le regole dell'equilibrio così per- fettamente che, non appena un passero vi si posava, subito essa crollava» 24. Questa critica, tanto severamente formulata, va ben oltre la distinzione sopra de- scritta tra equilibrio naturale, o fortuito, e sua dimensione riflessiva e volontaria. Il punto che infatti Kant vuol sottolineare è che, avendo come fine la pace perpetua, qual- siasi contesto internazionale privo di un artificio istituzionale mantiene inevitabilmente i caratteri della precarietà. Da un punto di vista descrittivo, la condizione di partenza è per Kant la stessa assunta da Hobbes: gli Stati si fanno la guerra o si minacciano reci- procamente, e ciò li rende perennemente esposti all’insicurezza. Senza un’adeguata di- mensione istituzionale che vada oltre lo Stato, le dinamiche proprie dell’equilibrio tra gli Stati – e qui avviene il distacco da Hobbes – sono destinate a decretare l’illusorietà della natura difensiva degli attori statali. Tramite una tale ipotesi si può solo contenere, e saltuariamente, l’egemonia degli Stati, ma non è possibile eliminare la guerra, che in- fatti, sebbene messa in forma, non libera la condizione internazionale dai rischi, dalle ingiustizie, dall’arretratezza. Se l’anarchia internazionale non viene pensata come mera assenza di governo, ma come disordine e caos, ogni prospettiva di contenimento della violenza o della limitazione della guerra rebus sic stantibus non può che apparire vellei- taria. Se la condizione internazionale è perennemente a rischio di disordine, è tale struttura che deve cambiare: exeundum e statu naturali è il principio che caratterizza Kant e che lo differenzia tanto da Hobbes e dalla tradizione del realismo politico, quan- to dalla tradizione che si inscrive nella linea Grozio-Bull. L’originalità dell’idea kantiana sta proprio in questo: che a partire dalla sua visione del contrattualismo, non si sviluppa solo una teoria che fonda il singolo Stato, ma una teoria che rende necessario anche il superamento dello stato di natura internazionale. Lo scritto in cui Kant espone in forma compiuta la sua riflessione in tema di ordine in- ternazionale è Zum ewigen Frieden, del 1795. Tuttavia, già undici anni prima di tale ste- sura, nella Idee zur einer allgemeinen Geschichte, Kant affermava che il progresso non po- tesse essere racchiuso entro i confini dello Stato nazionale. La teoria politica, dunque, non si limita alla ricostruzione della giusta costituzione dello Stato, alla sola dimensio- 169 La via europea all’integrazione fra gli Stati ne pubblica interna, ma investe criticamente anche la dimensione internazionale. La settima tesi di questo scritto mostra con chiarezza la complementarietà dei processi che si svolgono a livello infrastatuale e interstatuale: «Il problema di instaurare una costitu- zione civile perfetta dipende dal problema di creare un rapporto esterno tra gli Stati re- golato da leggi, e non si può risolvere il primo senza risolvere il secondo» 25. Nella riflessione proposta da Kant, la costruzione di un ordine internazionale ga- rantito dal diritto e non dal ricorso alla forza si propone a Kant nella forma di un’alter- nativa, la cui presenza è rintracciabile nei vari scritti che affrontano, più o meno diretta- mente, il tema della pace perpetua. Da una parte la federazione di popoli (Volkerbund), o foedus amphyctionum, secondo la quale gli Stati si uniscono mantenendo, però, la pro- pria autonoma sovranità; dall'altra lo Stato di popoli (Volkerstaat), o civitas gentium, che dà invece luogo a un unico organismo statale: la repubblica universale (Weltrepublik). Lo stesso secondo articolo definitivo dello scritto sulla pace perpetua mostra con chia- rezza questa oscillazione. Se Kant ravvisa una maggiore conformità all'ideale della ra- gione nella soluzione del Volkerstaat, che potrebbe garantire con assoluta efficacia – da- ta l’esistenza di un potere centrale, di un giudice super partes – l’estromissione della guer- ra dall'ambito internazionale, riconosce d'altra parte esplicitamente sia le difficoltà sia i pericoli connessi a una tale istituzione. Innanzitutto va sottolineato che qui, rinuncian- do alla prospettiva teorica della domestic analogy, Kant sottolinea la difficoltà, per gli Stati, di fare proprio quel dovere che vale invece per gli individui nello stato di natura senza leggi, e cioè – come recita il paragrafo 42 della Methaphysik der Sitten – di uscire da questo stato. In questo senso, si può con ragione sostenere che Kant è pienamente consapevole della specificità del carattere della sovranità, del fatto che la suprema pote- stas, sottratta per definizione all'esercizio della coazione da parte di altri soggetti politi- ci, difficilmente potrebbe sottomettersi a una legislazione che si colloca oltre i suoi stes- si confini. Il diritto internazionale (Volkerrecht) non è infatti in grado di imporre agli Stati un dovere dello stesso tipo di quello che nel caso del diritto naturale vale per gli individui nello stato di natura privo di leggi. Nello «Stato di popoli» si anniderebbe, dunque, una contraddizione: «poiché ogni Stato implica il rapporto di un superiore (le- gislatore) con un inferiore (colui che obbedisce, cioè il popolo), mentre molti popoli in uno Stato costituirebbero un sol popolo, ciò che è contrario al presupposto (poiché qui noi dobbiamo considerare il diritto dei popoli tra loro in quanto essi costituiscono al- trettanti Stati diversi e non devono confondersi in un solo e unico Stato)» 26. Questa sembra essere la ragione per cui i popoli si accontenterebbero di quel «surrogato negati- vo» che è la federazione di popoli, rigettando in pratica ciò che è giusto in teoria: «Ma poi- ché essi, secondo la loro idea del diritto internazionale, non vogliono affatto questo e riget- tano in ipotesi ciò che in tesi è giusto, così, in luogo dell'idea positiva di una repubblica uni- versale, perché non tutto debba andar perduto, fanno ricorso al surrogato negativo di una lega permanente e sempre più estesa, che ponga al riparo dalla guerra e arresti il torrente delle tendenze ostili contrarie al diritto, ma col continuo pericolo della sua rottura» 27. Di questo importante passaggio vanno sottolineate due cose: innanzitutto che, di- cendo questo, Kant assume che una tale federazione, i cui caratteri di precarietà egli ri- conosce senza indugi, possa sorgere solo per mezzo di una libera adesione dei vari Sta- ti, e non per il tramite di una spinta coercitiva, potendo essa riguardare solo alcuni di essi, ed estendersi poi, gradualmente, agli altri 28. Qui, però, l'idea del Volkerstaat, giusta in tesi, si ridimensiona a tal punto da diventare una specie di «unione di alcuni Stati» (Verein einiger Staaten) con una finalità specifica: conservare la pace. Tuttavia, alla prima e fondamentale idea dello Stato di tutti i popoli vengono esplicitamente riconosciuti al- 170 Anna Loretoni cuni difetti, quali ad esempio, data la «troppo grande estensione di un tale Stato», l'in- capacità di offrire un'efficace protezione ai suoi molti membri, riproducendo in forma diversa lo stato di guerra. Sul pericolo derivante dallo Stato di tutti i popoli Kant si esprime, del resto, anche in altri contesti, mettendo in campo proprio l’impegnativa no- zione di dispotismo. Nel Gemeinspruch, dal momento che la comunità cosmopolitica può essere causa di dispotismo e pericolosa per la libertà, la via che Kant indica condu- ce «non a una comunità cosmopolitica sotto un unico sovrano, ma a una condizione giuridica di federazione sulla base di un diritto internazionale stabilito in comune» 29. Nello scritto sulla pace perpetua, inoltre, la fusione di tutti gli Stati (Zusammenschmelzung) ad opera di una sola potenza diviene un «dispotismo senz'anima», che «dopo aver sradi- cato i germi del bene, degenera da ultimo in anarchia» 30. È in ogni caso fuor di dubbio che in thesi è la repubblica universale a rappresentare, nella riflessione kantiana, la vera meta dello sviluppo della civiltà e dell'emancipazione dalla barbarie, a cui avvicinarsi asintoticamente. E niente impedisce di supporre che il carattere graduale della costruzione della pace possa al fine condurre, anche in hypothe- si, a quella meta, che costituisce per gli Stati la sola «maniera razionale [nach der Ver- nunft] per uscire dallo stato naturale senza leggi» 31. Questo dato appare più evidente se non ci limitiamo soltanto alla lettura degli scritti kantiani di carattere politico, ma se guardiamo, ad esempio, anche allo scritto sulla religione, là dove il parallelo sviluppa- to tra mondo del diritto e mondo della virtù, tra Stato e Chiesa, comporta che, così co- me noi abbiamo il dovere di superare lo stato di natura giuridico – stato di guerra di tutti contro tutti –, abbiamo parimenti il dovere di oltrepassare lo stato di natura etico in quanto «stato di incessante ostilità contro il buon principio». Una volta avvenuto questo superamento, però, i rapporti che intercorrono tra gli Stati e le Chiese rimango- no ancora rapporti di status naturae, caratterizzati cioè dalla conflittualità e dall'insicu- rezza reciproca. Secondo la proposta kantiana si profila dunque la necessità del supera- mento anche di questa condizione, nella direzione di una parallela unificazione delle due istituzioni. L’esito di questo difficile processo conduce il genere umano verso una sola Chiesa visibile, quale «repubblica universale retta da leggi della virtù» e verso un solo Sta- to, «fondato sull'unione dei popoli come repubblica mondiale», meglio definito come «unione di Stati (repubblica di liberi popoli confederati) [Staatenverein (Republik freier ver- bundeter Volker)]» 32. Quel che emerge con evidenza dall’esame di questa riflessione è da una parte la consapevolezza delle difficoltà insite in tale percorso, dall’altra la sua costante attenzio- ne al tema della pluralità degli Stati. Pure animato dalla prospettiva di un’integrazione tra gli Stati al fine di garantire la pace perpetua, di fronte alla minaccia di una monar- chia universale, Kant sostiene la preferibilità di un contesto costituito dalla pluralità dei soggetti politici. Sebbene la presenza di più Stati indipendenti vicini possa rappre- sentare di per sé uno stato di guerra possibile, tale condizione è preferibile a quella che verrebbe a crearsi ad opera di una sola potenza, in grado di dar vita a una monarchia universale connotata da un «dispotismo senz’anima». Questo passo, senza dubbio pa- radossale nell’esprimere la preferenza di Kant per l’anarchia internazionale, mostra, a mio parere, quanto sia radicato nella cultura europea il superiore valore da attribuire a un contesto politico connotato dalla presenza plurale degli attori politici. 171 La via europea all’integrazione fra gli Stati 4. L’Unione potenza civile Nell’ipotesi kantiana è in primo luogo la cessione di sovranità in ambito militare – la rinuncia al potere di decidere sulla guerra – che determina l’integrazione, nella for- ma della federazione o della confederazione, tra gli Stati. L’abolizione degli eserciti permanenti e lo stesso foedus pacificum sono possibili trasferendo l’uso della forza alla nuova configurazione istituzionale, che si produce tramite l’accordo tra gli Stati rispet- to alla rinuncia della guerra. Ora, nella costruzione europea le cose sembrano andare assai diversamente, e non solo per ragioni contingenti. Nell’ambito dell’UE, infatti, si deve registrare la formazione di poteri sovranazionali a cui tutti riconoscono legittima autorità, che però non possiedono capacità coercitiva e che disegnano una trasforma- zione del politico in una veste soft, gentile, civile 33. La sovranità viene così a separare, in forma assolutamente inedita, due importanti funzioni: la spada della giustizia e il potere di battere moneta da una parte, la spada della guerra dall’altra. Sarebbe tuttavia sbagliato affermare che la questione della pace e della guerra non abbia avuto una rilevanza tutta particolare nella storia dell’integrazione. Nella fase di lancio dell’integrazione europea, la CECA nacque proprio per evitare che la questione del carbone e dell’acciaio divenisse motivo per una nuova guerra franco-tedesca, dopo che nel giro di soli venticinque anni il continente europeo era stato teatro dei due san- guinosi scontri mondiali. Così inteso l’avvio del processo, il significato dell’integrazio- ne va colto proprio nella consapevolezza del fallimento della forma esclusiva della so- vranità e dello stesso modello dell’equilibrio tra gli Stati, a vantaggio invece di una via alla cooperazione tra ex nemici che si avvalga della dimensione istituzionale. Nono- stante la rilevanza attribuita a tali questioni, l’Unione non ha però compiuto passi si- gnificativi nella direzione dell’unificazione di quello che si potrebbe definire enfatica- mente come il potere sommo all’interno della summa potestas. A dispetto del fatto che nella costruenda identità dell’Unione la questione della memoria della guerra è diri- mente nel configurare le ragioni dell’integrazione, il potere di decidere sulla guerra non è fino ad ora entrato a pieno titolo nell’agenda dell’Unione, che ha mostrato incer- tezza e incapacità in occasione dei recenti conflitti. Nell’ampia letteratura che confronta l’Unione europea con il tema della pace e della guerra, o altrimenti definito: della difesa e della sicurezza, le posizioni sono assai di- versificate. Tra queste, quella che a mio parere si pone in una coerente linea di conti- nuità con un’ipotesi di civilizzazione della sovranità è compresa nella proposta di un’Unione «potenza civile» (civilian power). Con potenza civile intendo un insieme di Stati che, sulla base di una sovranità condivisa, si impegnano per una politica di coope- razione di tipo multilaterale, dando priorità alla prevenzione e composizione politica dei conflitti tramite le organizzazioni internazionali, e ricorrendo all’uso della forza so- lo nel quadro delle finalità delle Nazioni Unite 34. Così intesa, tale nozione non appare sovrapponibile a quella, elaborata da Nye, di soft power, sebbene entrambe risultino di- stanti da quella formulazione dello hard power che, basandosi sulla minaccia diretta, esercita il potere plasmando le preferenze altrui secondo il cosiddetto meccanismo «della carota» 35. Si tratta di un modalità di condizionamento delle preferenze altrui senza uso della minaccia o di armamenti, ma che fa leva su strumenti come la cultura, l’ideologia o su istituzioni in grado di attrarre e sedurre altri attori politici. Tuttavia, ed è questa un’importante differenza, nell’operare della potenza civile non si propone una semplice aggiunta, ma un’alternativa vera e propria agli strumenti classicamente mili- tari. Nell’ipotesi di un’Unione europea come civilian power c’è un’intenzionalità di tipo 172 Anna Loretoni riflessivo, che connota un’azione consapevole da parte di un attore politico, il cui ope- rato, se pensato sul lungo periodo, è potenzialmente in grado di contribuire a modifica- re lo stesso contesto internazionale. In primo luogo attraverso la valorizzazione di quei fattori immateriali quali norme, principi e valori condivisi, che vengono elaborati dagli attori politici e che contribuendo a definire la loro identità ne indirizzano l’agire 36. Se- condo tale prospettiva, di chiara ispirazione costruttivista, l’Unione sarebbe in grado di produrre, anche solo grazie alla mera esistenza, modificazioni significative in altri con- testi politici 37. Quella della civilian power non è comunque una proposta isolata, inscrivibile nel- l’ambito delle utopie normative più o meno efficaci. La sua plausibilità, infatti, si rafforza anche grazie all’analisi del contesto globale che è venuta con il tempo matu- rando in ambito europeo, alla base della quale dobbiamo porre due fattori: una nuova idea di interdipendenza e una nuova concezione della natura delle minacce 38. Facendo leva sulla consapevolezza dell’esistenza di una serie di overlapping communities of fate, le élites europee ne deducono che è impossibile risolvere sfide e problemi globali a pre- scindere da un sistema di governance multilaterale. La stessa questione della sicurezza, dalla forma disgiuntiva tipica della Guerra Fredda e della corsa agli armamenti, è dive- nuta sempre più questione collettiva e multilaterale. Obiettivo dell’Europa è quindi quello di costruire una società internazionale basata su istituzioni internazionali ben funzionanti e un ordine internazionale fondato sull’importanza riconosciuta alle orga- nizzazioni regionali. In un’epoca connotata dalla presenza di minacce come il global warming, il terrorismo e la proliferazione delle ADM, solo un multilateralismo effettivo, di cui un punto qualificante sta senza dubbio nel rafforzamento del ruolo delle Nazioni Unite, può essere efficace. Civilizzando la sovranità dei singoli Stati, l’Unione europea, tramite una politica estera da potenza civile, dà un contributo al mutamento della struttura del sistema internazionale, offrendo al mondo, con la sua stessa esistenza, una sorta di controesempio rispetto al paradigma neorealista di ispirazione waltziana. Nel sostenere che solo tramite le organizzazioni multilaterali di cooperazione si può realizzare una governance democratica, fondata sulla certezza del diritto, si rende mani- festa anche la presa di distanza da ogni ipotesi unilaterale. In questo senso l’identità in- ternazionale dell’UE si afferma non solo tramite l’Onu ma anche tramite la funzione del WTO, il rafforzamento della Corte Penale Internazionale e il sostegno a tutti i negoziati in grado di mettere insieme le volontà degli Stati e di sviluppare la cooperazione tra lo- ro, quali il Protocollo di Kyoto o la costituzione di un regime internazionale relativo al- lo sviluppo sostenibile affrontata a Johannesburg. Così come sul versante interno, l’or- dine e la sicurezza internazionale si possono costruire solo in presenza di democrazia, rispetto dei diritti umani e stato di diritto. Pur in presenza di significative differenze, confermando il valore di un’interpretazione che si fonda sulla domestic analogy, tra de- mocrazia interna e democrazia internazionale la via per l’affermazione di entrambe è la medesima. Qui, la stessa nozione di pace mostra un’articolazione interna più ricca di quanto la sua mera definizione ex negativo propone; essa viene connotata in termini po- sitivi, non come mera assenza di guerra. La consapevolezza di una nuova natura delle minacce comporta inoltre una ridefi- nizione della stessa nozione di sicurezza. Alla più tradizionale concezione di securitas come capacità di difesa da un attacco militare di un altro Stato, che tutto sommato, pur in presenza di cospicue trasformazioni tecnologiche, collega la fase della modernità a quella della Guerra Fredda, si sostituisce la consapevolezza della presenza di altri tipi di rischio, in primis degrado ambientale, disoccupazione, povertà e terrorismo; sfide in 173 La via europea all’integrazione fra gli Stati parte lontane dal territorio, ma solo in apparenza meno preoccupanti. Contrariamente a quanto avvenuto nel corso della Guerra Fredda, queste sfide non possono essere af- frontate unicamente con mezzi militari, ma attraverso una commistione di strumenti economici, politici e civili. È perciò sulla natura dei mezzi adeguati per affrontarle che la riflessione entra direttamente in relazione anche con tutte quelle questioni relative alla prevenzione e gestione dei conflitti, confermando per certi versi la validità teorica della prospettiva della potenza civile. Nel documento redatto da Javier Solana sul ruo- lo internazionale dell’Unione, è chiaramente espressa la necessità di far seguire all’in- tervento militare una capacità civile di gestione della ricostruzione, tanto nelle situazio- ni di crisi che di post-crisi, sottolineando il fatto che proprio in tale ambito l’Unione ha elaborato una propria specifica capacità di prevenzione dei conflitti e di ricostruzione nella fase di post-conflitto 39. Il ruolo militare dello Stato in senso tradizionale, infatti, e la componente militare del potere sovrano sembra non poter esercitare più una funzio- ne esclusiva 40. L’Unione europea, istituzione inadeguata da molti punti vista, non lo è affatto per questo genere di operazioni; anzi, la questione delle azioni che coinvolgono personale militare e civile appare proprio come l’area di particolare interesse per l’U- nione, quella che più ha a che fare con la propria identità internazionale. Proprio in relazione alle questioni legate alla pace e alla guerra, pur in presenza di molte ambivalenze, l’Unione europea costituisce un caso di studio estremamente inte- ressante in termini di trasformazione del potere e della politica nell’attuale contesto in- ternazionale. L’incapacità di dare forma a una potenza militare in senso classico, non ha significato per l’Unione rinuncia a esercitare un ruolo nella scena internazionale, e solo con una considerevole semplificazione si potrebbe giungere alla conclusione op- posta. La dimensione globale propria della fase post-leviatanica, nel riconfigurare il ruolo degli Stati nazionali sfida la nostra capacità di analisi e la nostra abilità concettuale. Nell’attuale contesto internazionale, infatti, neppure la comune paura delle minacce globali induce alla pacificazione cosmopolitica, e la transizione del sistema internazio- nale del post-Guerra Fredda appare connotata in modo ambivalente dalla compresenza di elementi cooperativi e conflittuali, oltre che da una pluralità di livelli istituzionali che va oltre l’opposizione nazionale/globale, aggiungendo la dimensione macro-regio- nale ai tradizionali due livelli – nazionale e cosmopolitico – su cui la riflessione filosofi- ca si è esercitata. Tale articolata configurazione comporta sì una revisione della sovra- nità statuale di tipo westfaliano, non nel senso della creazione di una cosmopolis, bensì nella direzione di una ridefinizione della dimensione esclusiva della sovranità statuale che implichi processi cooperativi tra gli attori politici, in un contesto istituzionale di scala regionale che sappia andare oltre il modello dell’equilibrio e arrestarsi prima della federazione kantiana. NOTE 1 David Harvey, The Condition of Postmodernity, trad. it. La crisi della modernità, il Saggiatore, Mila- no 1993. 2 Martin Wight, International Theory. The Three Traditions, Leicester University Press, London 1994. 3 Mi riferisco al meccanismo della defezione nell’esempio della caccia al cervo di J. J. Rousseau, ri- preso da Kenneth H. Waltz, Man, the State and War, trad. it. L’uomo, lo Stato e la guerra, Giuffré, Mi- lano 1998. 174 Anna Loretoni 175 4 Esempi di un tale rinnovato interesse verso l’Unione europea sono gli studi di Furio Cerutti, En- no Rudolph, A Soul for Europe, Peeters, Leuven 2001, 2 voll.; Biagio de Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Guida, Napoli 2002; Barbara Henry e Anna Loretoni, The Emerging European Union, ETS, Pisa 2005. 5 Potremmo leggere questa alternativa nei termini di una contrapposizione tra classici, in questo caso Kelsen e Schmitt. Seguendo una declinazione di tipo giuridico-costituzionale, tale alternati- va è analizzata da Joseph H. H. Weiler, The Constitution of Europe, trad. it. La Costituzione dell’Euro- pa, il Mulino, Bologna 2003. 6 Sul neo-regionalismo si veda almeno: Paul Taylor, International Organization in the Modern World. The Regional and the Global Process, Pinter, London 1993; Mario Telò, European Union and New Re- gionalism, Ashgate, Aldershot 2001. 7 La riflessione più interessante in questo ambito è quella proposta da Robert Keohane e Joseph S. Nye, Power and Interdependence. World Politics in Transition, Brown and Co., Boston 1977. 8 Ho sviluppato questo punto nel mio volume, Teorie della pace. Teorie della guerra, ETS, Pisa 2005. 9 Il riferimento è a Alan Milward, The European Rescue of the Nation-State, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1982. 10 Sulla definizione di «confine funzionale» in relazione all’Unione europea cfr. Stefano Bartolini, Confini. Integrazione europea e stato-nazione, in «Rivista Italiana di Scienza politica», 2004, 2. 11 Insiste opportunamente su questo punto Biagio de Giovanni, Problematicità dell’Unione europea, in Giuliana Laschi e Mario Telò, (a cura di) Europa potenza civile o entità in declino?, il Mulino, Bolo- gna 2007. 12 Cfr. Federico Chabod, Idea di Europa e politica dell’equilibrio, il Mulino, Bologna 1995, p. 152. 13 Analoga consapevolezza su questo tema viene espressa in Jean Jacques Rousseau, Que l’état de guerre nait de l’état social, trad. it. Lo stato di guerra nasce dallo stato sociale; Frammenti sulla guerra, in Jean Jacques Rousseau, Opere, Sansoni, Firenze 1972. 14 Carl von Clausewitz, Vom Kriege, trad. it. Della guerra, Mondadori, Milano 1942, p. 469. 15 Ivi, p. 468. 16 Ivi, p. 472. 17 Insiste su questo aspetto, ma con delle differenze, proprio in relazione al saggio di David Hume, Raymond Aron, Paix et guerre entre les nations, trad. it. Pace e guerra tra le nazioni, Comunità, Mila- no 1962, p. 163. 18 Cfr. David Hume, On the Balance of Power, trad. it. Sull’equilibrio di potenza, in Opere filosofiche, La- terza, Roma-Bari 1976, p. 342. 19 Hedley Bull, The Anarchical Society. A Study of Order in Worls Politics, trad. it. La società anarchica. L’ordine nella politica mondiale, Vita e Pensiero, Milano 2005. 20 Ivi, p.125. 21 In Grozio è pienamente presente l’interpretazione dello jus gentium come diritti avente valore tra i popoli e non come diritto comune ai popoli. Si veda Hugo Grozio, De jure belli ac pacis libri tres, trad. it. parziale Prolegomeni al diritto della guerra e della pace, Morano, Napoli 1979. 22 Sviluppa una lettura dei classici della guerra sulla base dei limiti di accesso alla violenza Ales- sandro Colombo, La guerra ineguale, il Mulino, Bologna 2006. 23 Carl Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. Il Nomos della terra, Adelphi, Milano 1991. 24 Le opere di Immanuel Kant vengono citate dall’edizione dell’Accademia di Berlino, Kant’s ge- sammelte Schriften, hrsg. von der Koniglich Preussischen (Deutschen) Akademie der Wissenschaf- ten, Berlin und Leipzig, 1902 ss., indicando il numero romano del volume dell’edizione in lingua tedesca e quindi, in numeri arabi, le pagine dell’edizione originale e poi della traduzione italiana cui si fa riferimento. Immanuel Kant, Uber den Gemeinspruch, trad.it. Sul detto comune, in Scritti po- litici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, UTET, Torino 1956; VIII, p. 312; p. 280. 25 Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltburgerlicher Absicht, VIII, p. 24; trad. it. Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici cit., p. 31. 26 Immanuel Kant, Zum ewigen Frieden, VIII, p. 354; Per la pace perpetua, in Scritti politici cit., p. 297. 27 Ivi, VIII, p. 301, p. 357. 28 Sulla questione della revocabilità della presenza degli Stati Kant si esprime direttamente nelle La via europea all’integrazione fra gli Stati Anna Loretoni 176 pagine della Metaphysik der Sitten dedicata allo jus gentium. La descrizione della condizione di na- tura esistente tra gli Stati da una parte, e di una loro possibile condizione legale dall'altra, viene declinata in questo contesto nei termini della Rechtslehre kantiana: con i caratteri, rispettivamente, della provvisorietà e della perentorietà. «Siccome lo stato di natura dei popoli come quello degli uomini isolati, è uno stato da cui si deve uscire per entrare in uno stato legale, così prima dello stabilirsi di questo, tutti i diritti delle genti e tutto il mio e il tuo esterni, che gli Stati possono ac- quistare o conservare per mezzo della guerra, hanno un valore meramente provvisorio, il quale può acquistare una validità perentoria e diventare un vero stato di pace soltanto mediante una generale unione degli Stati (analoga a quella mediante cui un popolo diviene uno Stato)». Imma- nuel Kant, Die Metaphysik der Sitten, trad. it. La metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 1983, VI, p. 350; p. 187. 28 Immanuel Kant, Sopra il detto comune, VIII, p. 311; p. 278. 30 Ivi, VIII, p. 367; p. 313. 31 Ivi, VIII, p. 357; p. 301. 32 Si veda su questo punto Giuliano Marini, Kants Idee einer Weltrepublik, in P. J. M. Van Tongeren, Eros and Eris, Kluwer Academie Publishers, Netherlands 1992, soprattutto le pp. 141-144; Tre studi sul cosmopolitismo, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa 1998; Georg Cavallar, Pax kan- tiana, Bohlau Verlag, Wien-Koln-Weimar 1995. 33 Si veda a questo proposito Tommaso Padoa-Schioppa, Europa forza gentile, il Mulino, Bologna 2002. 34 Assumo questa definizione da Gian Enrico Rusconi, Germania Italia Europa. Dallo stato di potenza alla potenza civile, Einaudi, Torino 2003. 35 Cfr. Joseph S. Nye, The Paradox of American Power. Why the World’s Only Superpower Can’t go it Alone, trad. it. Il paradosso del potere americano. Perché l’unica superpotenza non può più agire da sola, Einaudi, Torino 2002. 36 Si vedano a questo proposito i lavori di Alexander Wendt, Anarchy is What States Make of It. The Social Construction of Power Politics, in «International Organization», 2, 1992. 37 Si muove in questa direzione la riflessione di Jan Manners, Normative Power Europe? A Contradic- tion in Terms, in «Journal of Common Market Studies», 2, 2002. 38 Si veda il documento redatto da Javier Solana, A Secure Europe in a Better World, presentato al Consiglio Europeo di Salonicco, 20 giugno 2003; A Human Security Doctrine for Europe. The Barcelo- na Report of the Study Group on Europe Security Capabilities, settembre 2004. 39 Cfr. Kristian Jorgensen, (a cura di), European Approaches to Crisis Management, Kluwer, London- Boston 1997. Sul tema della capacità europea in merito alla prevenzione dei conflitti, si veda Chistopher Hill, The EU’s Capacity for Conflict Prevention, in «European Foreign Affairs Review», 6, 2001. 40 Susan Strange, che affronta questo tema, rileva proprio come invece il realismo politico si attar- di in una concezione che vede ancora nello Stato l’attore principale del sistema internazionale e nella capacità militare l’unica misura utile. Susan Strange, The Retreat of the State, The Diffusion of Power in the World Economy, trad. it. Chi governa l’economia mondiale? Crisi dello Stato e dispersione del potere, il Mulino, Bologna 1998.